dal sito https://corinnazaffarana.wordpress.com
Dall’intervento presso l’Associazione
De Amicis – Toscano di Novara;
novembre 2016.
Un martire è essenzialmente un testimone che attraverso una forma di
sacrificio di se stesso va a rendere immortale il proprio pensiero
creando un
esempio per chi verrà. Ebbene, Ipazia fu davvero, allora, una martire.
Una martire, in generale, del valore della
libertà individuale
in quanto, ai nostri occhi, agli occhi di una società post umanistica e
post illuminista, un essere umano che esprime un’ idea e porta avanti
della ricerca scientifica e filosofica, pur se questa si pone ai margini
del pensiero di massa – contenendo magari i semi di qualcosa di troppo
nuovo per poter essere compreso su larga scala – non può, non deve
pagare con la vita le proprie scelte. E non dovrebbe nemmeno rischiare
di pagare con la propria vita.
Sotto questo punto di vista,
storicamente parlando, Ipazia si pone perciò e indubbiamente nel
lunghissimo novero di tutti coloro che furono sottoposti a un potere
forte che ne direzionò l’esistenza tramite un ricatto dittatoriale: ne
sono un esempio Socrate, Giordano Bruno, ma anche Galileo Galilei. E
molti altri.
Ma, sotto questo punto di vista, Ipazia si pone nel novero
anche di tutti coloro che furono sottoposti alla follia della “
dittatura della maggioranza”,
di quella forma, cioè, di degenerazione di un processo
para-democratico, tale per cui non è il principio dello “IUS” che vince
(cioè l’insieme dei Principi che guidano alle Leggi), ma la forza bruta
numericamente superiore.

Sono, in questo senso, martiri della libertà tutte le vittime delle
lapidazioni di massa, le vittime della follia inquisitoria, coloro che
furono immolati alla forza bruta della folla alla ricerca di un capro
espiatorio per lenire tensioni sociali ed economiche.
Anche sotto questo punto di vista – ovvero sotto il punto di vista della
sconfitta dello Ius come fondamento di una civiltà
– siamo purtroppo costretti ad annoverare Ipazia di Alessandra fra gli
involontari, diciamo, eroi della libertà, in quanto le modalità della
sua uccisione transitarono, come noto, dal linciaggio. Ma c’è qualcosa
di ancora più profondo da dire circa la figura di Spazia. Calcolo
infinitesimale, trigonometria, studi sulla struttura e l’utilizzo
dell’astrolabio e dell’idroscopio, matematica, filosofa e scienziata del
IV-V secolo, vissuta sotto Arcadio – Ipazia di Alessandria fu Martire,
cioè testimone, di un valore forse ancora più interessante da sondare
sotto un profilo storico e culturale: mi riferisco al valore in sé,
inteso come Diritto Naturale e perciò Inalienabile dell’Uomo, della
Conoscenza – quell’idea magnifica,
tipica della cultura greca come testimoniato da Socrate in poi, tale per cui
qualsiasi
Essere Umano possa elevarsi ai pinnacoli della sua propria natura
attraverso non uno sterile processo fideistico, bensì attraverso il
lavorio costante, guerriero e fiero che conduce a quella Conoscenza che
genera Consapevolezza. Ipazia fu, allora, un martire
di un Metodo
– Martire di un Metodo, ripeto – Testimone ultimo di un approccio alla
ricerca, alla conoscenza, e in particolare alla filosofia ed alla
scienza Scienza che è giunta fino a noi sotto il nome di
Gnosi.

Quando parlo di “Gnosi” non intendo riferirmi all’utilizzo più
volgare e profano del termine, inteso come processo salvifico fondato su
quella generica idea di “salvezza” che inizia a farsi strada nella
cultura mediterranea (e poi Europea) a partire dall’Ellenismo e dalla
prima grande crisi della civiltà classica. Con il termine Gnosi intendo
più specificatamente riferirmi ad un processo conoscitivo, che non
procede da postulati e principi ma si fonda sulla base della
esperienzialità che trasforma la coscienza individuale e consente
l’apertura alla consapevolezza.
Astronoma, fisica e matematica, in un tempo in cui la donna era
considerata meno di un animale utile quale il cavallo (ad esempio) e
certamente inferiore per intrinseca diversità rispetto all’uomo maschio
(immagine di Dio), Ipazia di Alessandria, Maestra di queste discipline,
veniva chiamata dai suoi contemporanei Filosofa, Venerabilissima,
Sapiente.
A partire da personaggi eccellenti quali
Giuliano il Teurgo (II d.C.) o lo stesso
Galeno (II d.C.),
una serie di correnti di pensiero che avevano la loro origine negli
epigoni della metafisica di matrice platonica, erano confluite – dopo la
chiusura dell’Accademia di Atene voluta da Silla, nell’86 – a ridare
vita ad alcune fra le più interessanti, fertili e, per certi aspetti,
sublimi intuizioni di Socrate, Platone e più in generale degli sviluppi
della filosofia greca in senso gnoseologico e metafisico. Il
cosiddetto
medioplatonismo si configurava già
come un processo di revisione sincretica delle teorie del sommo
filosofo, con nette influenze pitagoriche e orientali; ma fu soprattutto
con lo sviluppo del
neoplatonismo che, nel
bacino di Alessandria d’Egitto, si fusero fra loro tutte quelle mirabili
dottrine che concorsero a creare le fondamenta di tutto l’Esoterismo
europeo e delle attuali
Scuole Filosofiche ed Iniziatiche. Filosofia greca, mistica persiana ed ebraica, tradizione egizia costituiscono le basi della
teurgia e
metafisica
che caratterizzano questa forma al tempo stesso scientifica e mistica
di ascesi dell’Uomo. Come noto, le case madri delle scuole (o diciamo
pure, in senso più moderno,
Ordini) neoplatoniche erano almeno
tre: Atene, la più tradizionale e particolarmente legata ad una visione
teurgica e orientale; Roma ed Alessandria d’Egitto.
Ebbene Ipazia operò proprio in quest’ultima sede – Alessandria – come
Filosofa, cioè come Maestro e Rettore della Scuola, successore
proclamato della Tradizione Platonica. Fondamenta del suo pensiero
furono valori di una straordinaria modernità, forse troppo complessi da
comprendere persino fra le sacre mura di quella venerabile Scuola.
La virtù della
Scienza e, in particolare, della
matematica e dell’astronomia come ancelle della Filosofia; l’idea stessa
che la Filosofia dovesse essere volta alla
ricerca del Vero e non solo all’esibizione di intellettualismi da salotto; la consapevolezza della
democraticità
dell’Istruzione, che la spingeva – al pari di Socrate – a gettarsi in
spalla il mantello e predicare insegnando umilmente a tutti coloro che
lo desiderassero, nell’Agorà e nelle vie della città; il valore però –
anche – della
Segretezza di certi insegnamenti, che
dovevano essere trasmessi unicamente dalla bocca del Maestro
all’orecchio del Discepolo, preservando così la Saggezza più sublime
dalla parola scritta; l’idea, infine, che la Filosofia coincidesse con la
pratica costante della stessa, che Essa fosse una
Via effettiva che rende il ricercatore della saggezza un
Filosofo
ogni minuto di ogni giorno della sua vita; in parole povere, che il
Filosofo fosse quello che oggi chiameremmo un “Iniziato ai Misteri della
Gnosi” e, come tale, che dedicasse la sua esistenza alla
Ricerca delle Ricerche:
il disvelarsi progressivo delle tracce della verità nel mondo. Ipazia
fu questo: motore di quella ricerca scientifica che, in Alessandria,
diede una serie di frutti astronomici e matematici che solo secoli dopo
furono ristudiati e riscoperti; Ipazia fu anche Maestra del
dia –logo –
ovvero dello “scorrere del logos” – e fu preservatrice dei più alti
prodotti della revisione della filosofia dei suoi predecessori.
La scuola di Alessandria godeva, al tempo della “Piissima Filosofa”,
di enorme prestigio ed influenza non solo culturale, ma anche politica:
Ipazia venne così ed inevitabilmente, per la posizione che rivestiva, a
scontrarsi con una serie di paralleli interessi ecclesiastici nella
gestione dell’economia e degli affari pubblici della città. Non solo:
Ipazia era, di fatto, il
simbolo di quel protrarsi
della filosofia ellenica
che già da tempo il potere religioso istituzionalizzato tentava di
distruggere per sottrarne la notevole influenza all’unificazione
socio-economica del mondo sotto l’egida cristiana.

Se desideriamo inquadrare il senso della figura di Ipazia e,
soprattutto, della Testimonianza fornita dalla sua tragica morte, sotto
un profilo storico credibile, è dunque necessario sottolineare che
stiamo trattando di un’epoca in cui il Cristianesimo – ancora, per molti
aspetti, in corso di definizione – si poneva come un’alternativa
unificatrice di carattere sociale, culturale, naturalmente spirituale e
anche politica, dotata di una serie di valori in forte contrapposizione
con quanto detto sinora circa la visone filosofica che Ipazia andava
incarnando e più in generale con un serie di elementi propri del
Neoplatonismo. Per quanto la scuola di Alessandria non fosse una delle
più schierate in netta contrapposizione con la filosofia cristiana, il
cristianesimo del periodo tardo-antico iniziava a inserire all’interno
della visione sociale una serie di elementi che poi sarebbero stati
determinanti per la costituzione del medioevo: l’idea di una società
“collettiva”, di valore fortemente teocentrico, tendenzialmente fissa,
gerarchica, costituita da cellule e nuclei organizzati secondo una serie
di parametri (e ruoli, di conseguenza) voluti da Dio e, per tanto,
strutturalmente inattaccabili. Cominciava a diffondersi l’idea del
pericolo del
peccato insito nella ricerca della conoscenza;
l’idea della ricerca di un limite per l’Uomo, configurato sull’idea di
quell’umiltà della mente che è, o può essere, fortemente in contrasto
con un clima molto libero e non dogmatico della ricerca.
Cominciava a diffondersi il parametro aprioristico fideistico in
contrasto con la dinamicità della risposta “a posteriori”; cominciava a
diffondersi la forma mentis della ricapitolazione enciclopedica in vece
della specializzazione e della divisione delle discipline, il tutto
accompagnato dall’idea di un Uomo inteso essenzialmente come figlio
devoto di Dio in – in questo caso – nettissimo contrasto con la pratica
della
Teurgia, che si fonda sull’immagine di un Divino al di
fuori ma anche all’interno dell’Uomo stesso che, come tale, ha il dovere
di alzarsi dalle sue ginocchia e incontrare dinamicamente la Verità,
financo a
fondersi con Essa in una Unità perfetta. Al tempo di
Ipazia, la Chiesa aveva già iniziato la sua opera di contrapposizione
agli aspetti più importanti della
Tradizione Ellenica, anche
attraverso azioni concrete quali la distruzione di templi e statue;
l’uccisione di esponenti culturali e politici; persecuzioni; forte di
una certa immunità davanti alla legge (elemento, questo, che verrà
definitivamente ratificato nel 384) e – in Alessandria in particolare –
forte della presenza di un “braccio armato” : l’Ordine dei
Parabolani.
L’Ordine laico dei Parabalani (o Parabolani), nato almeno un secolo
prima, in occasione della peste che aveva afflitto Alessandria, si
poneva essenzialmente lo scopo di creare adepti desiderosi di immolarsi
in nome di Dio: ufficialmente, i suoi membri prestavano servizio ai
malati, incuranti del rischio di contrarre malattie poiché votati –
appunto – al martirio per garantirsi il paradiso; di fatto, le risorse
umane dell’Ordine erano perlopiù impiegate come guardie del corpo del
vescovo e anche come forza per azioni intimidatorie. La morte di Ipazia
di Alessandria, così intensa per drammaticità, dev’essere allora
compresa e collocata all’interno di questo complesso contesto culturale,
politico e religioso che caratterizza un momento di
passaggio
fra il mondo “antico” ed il mondo così come sarà effettivamente
ridefinito nel corso del medioevo – almeno fino all’anno Mille.

A partire dal 700 d.C., dal sistema delle “schoalae”, si evolve la
cosiddetta “scolastica cristiana”, un sistema filosofico complesso e
sfaccettato, il quale, come noto, ha un debito incommensurabile con
quella cultura ellenica che costituirà, quindi, la base operativa del
tentativo di fornire al Cristianesimo medievale un sostrato filosofico
di spessore. Il tentativo (a volte interessante, a volte obiettivamente
grottesco) di conciliare la “Rivelazione Cristiana” con l’uso della
ragione portò – di fatto – ad un’opera di sistematizzazione
enciclopedica del sapere proprio della filosofia greca e
mediterranea. Furono, così, i modelli dell’
Interpretatio Graeca ,
unita agli stimoli provenienti dal mondo arabo ed ebraico, che
crearono, reinterpretati, un modus di approccio al divino ed alla
devozione di cui poi si impadronirà il Cristianesimo. Durante i primi
secoli della diffusione del nuovo monoteismo nel bacino del
mediterraneo, si ebbero così due modelli, contemporanei ma fra loro
opposti, di rapporto con la tradizione classica: da un lato il lento
farsi strada della consapevolezza della forza della filosofia greca (con
particolare attenzione tanto per Platone quanto per Aristotele);
dall’altro la necessità di contrastarne una serie di modelli, quelli –
in particolare – che si ponevano in strutturale contrapposizione con
quelli nuovi; i quali erano stati eletti, ormai dal tempo di Costantino,
per riunificare un mondo stretto da una crisi tipica di un momento
storico ponte fra due epoche.
Lo strazio e, in definitiva, il martirio atroce di Ipazia di
Alessandria, Maestro della Scuola di Alessandria – ovvero di una delle
menti più libere e brillanti che il mondo abbia avuto, ha perciò questa
complessità storica e culturale alle spalle ed in questo contesto
dev’essere inquadrata. Come avviene per tutte le azioni particolarmente
sporche della storia, anche l’uccisione del capo dell’accademia di Alessandria ebbe una sua
profasis,
una scusa, cioè, utile per accendere la miccia del consenso politico e
quindi popolare: nel caso specifico della “Piissima Filosofa” fu la sua
vera o presunta vicinanza al Prefetto di Alessandria, oppositore
politico del Vescovo Cirillo. Che fosse vera o meno questa “amicizia” e
che Ipazia fosse colei che dietro le quinte lavorava per fomentare
questa opposizione, in Alessandria, fra potere politico filo-ellenico e
potere politico-religioso cristiano, non ci è dato saperlo.
Ad usum Delphini,
è corretto (per quanto approssimativo) affermare, come già abbiamo
fatto in precedenza, che fra le diverse scuole neoplatoniche quella di
Alessandria fu forse e paradossalmente la meno schierata contro
l’espansione politica e spirituale del Cristianesimo.
Quello che avvenne materialmente ad Ipazia, stando alle fonti, è
molto semplice: fu la classica vittima di un agguato. Non ci fu
bisogno di aspettare che finisse incautamente per farsi coinvolgere in
affari di potere più grandi di lei (come avvenne a Giordano Bruno, ad
esempio); venne – probabilmente – aggredita e lasciata in balia di una
folla di fanatici
. Non sappiamo, naturalmente, se sia vero che
venne graffiata, lapidata, che le vennero strappati gli occhi ma
certamente se questo hanno lasciato scritto le fonti più prossime ciò
significa che, in qualche modo, ritrassero un panorama se non vero,
comunque
verosimile, credibile considerato il clima che dominava, in quel momento, Alessandria d’Egitto.
E’ doveroso chiedersi, allora: cosa venne “linciato” attraverso il linciaggio di Ipazia?
Che messaggio, cioè, si volle lanciare con l’uccisione del capo della
Scuola Neoplatonica ed erede della tradizione ellenica?
Dal punto di vista dei giochi di potere locali, il messaggio era quello di un linciaggio volto all’influenza “laica” che si opponeva a quella religiosa del Vescovo.
Dal punto di vista, più ampio, dei giochi di potere internazionali,
si voleva dare un messaggio all’influenza non cristiana che ancora
pesava in un mondo in crisi, stretto in un momento di passaggio – un
mondo che doveva essere unificato anche culturalmente, sotto l’egida di
una nuova religione che si facesse anche custode di un nuovo valore del
potere politico. Per inciso, questo lungo processo culminerà, molti
secoli dopo, con la creazione del Sacro Romano Impero.
Da un punto di vista ancora più ampio,
si trattava di una lotta fra ideologie troppo diverse che però, a mio
avviso, si presentavano l’una verso l’altra secondo uno schema
gerarchico: il Cristianesimo era ancora una filosofia neonata, e quindi
decisamente meno sviluppata e ancora abbastanza povera da un punto di
vista teologico e filosofico, in generale; molto debitrice alla cultura
greca ed ebraica, ancora priva di una serie di esponenti di spicco nel
panorama culturale, che fossero noti in ambiti più vasti del sapere
umano (scienza, filosofia) e non solo come rappresentanti di una fede.
La cultura greca, invece, era antica di più di mille anni e,
indipendentemente dallo sviluppo religioso suo proprio, aveva creato
filosofia e scienza, aveva contribuito al progresso dell’umanità e,
adesso, ben si prestava a contribuire anche allo sviluppo del
cristianesimo stesso. Questa nuova religione, infatti, si fondava
essenzialmente sulla Fede e quindi non possedeva in proprio una serie di
modelli che l’aiutassero, come religione, ad evolvere una teologia di
spessore intellettuale (al contrario, invece, dell’Ebraismo, che aveva
una vita anche molto più lunga alle spalle).
Ebbene, questo modello venne trovato proprio nella filosofia greca e
in particolare nel Platonismo, che venne, infatti, preso e rielaborato
con estrema abilità e con risultati di oggettivo valore; si pensi al
problema “degli Universali”, della costituzione del “Logos” o a
personaggi come Boezio (VI sec) o, molto più tardi, Tommaso d’Aquino
(XIII sec).
Il Cristianesimo, tuttavia, si trovava, all’epoca di Ipazia, in una posizione molto ambigua:
da un lato, doveva attingere dal più grande modello culturale che
unificava il mondo ma, dall’altro lato della questione, era necessario
non esagerare nel sottolineare il debito di gratitudine intellettuale
che si aveva verso il paganesimo. Si tratta, in realtà, di un processo
storico molto diffuso nell’evoluzioni delle religioni: tutte le
religioni nascono dalle ceneri di religioni precedenti e grazie
all’apporto sincretico di vari stimoli, ma poi rivendicano per se stesse
l’assoluta originalità delle idee poiché tutte le religioni devono
presentarsi in qualche modo come o rivelate o comunque provenienti da un
piano “superiore”.

Anche
il politeismo greco, per inciso, era debitore di una infinità di
stimoli; così il mondo romano il cui pantheon e la cui cosmologia erano
un po’ etrusche e un po’ greche. Parimenti il Cristianesimo riceve
stimoli dal vicino oriente (Persia, Ebraismo), dal mondo egizio, dalla
filosofia ellenica.
Questi elementi tendono poi a emergere con particolare forza nelle
versioni “iniziatiche” legate alla narrazione cristiana. Si pensi alle
influenze egizie ed a quelle ebraiche dei secoli a venire. In
particolare, tutte le scuole iniziatiche posteriori alla diffusione del
Cristianesimo si occuperanno di recuperare – o meglio di non perdere –
il concetto della
“gnosi” attiva come mezzo di elevazione dell’Uomo,
che è, in realtà, in contrasto con l’attesa passiva della Salvezza e la
forza mistica della Fede. Di fatto, dunque, il processo gnostico, per
quanto fondato sull’ esperienzialità e non solo sulla Ratio, non può e
non deve essere sempre accostato all’esperienza mistica di modello
misterico-orientale poi confluita anche nel Cristianesimo, poiché il
vero processo gnostico non è, di fatto, rivelato ma costruito
attivamente attraverso l’unione equilibrata degli strumenti conoscitivi
propri dell’Uomo: ragione; emozione; intuizione; esperienzialità.
Né, a mio avviso, esso poggiava – prima del medioevo – e poggerà –
dal periodo umanistico in poi – su forme di pensiero legate all’idea
della
sottomissione dell’Uomo a Dio con una fortissima componente di
lontananza avvertita
fra il piano assoluto, divino, archetipico e quello umano, che non può e
non deve essere colmata – questa distanza – poiché la sfera terrena e
umana è avvertita come qualcosa di “sporco” e di legato ad un insanabile
dualismo (si pensi alla
teologia negativa di Sant’Agostino,
tale per cui Dio si conosce nell’ignoranza e non nella gnosi).
Nell’Ebraismo, pur esistendo questa sottomissione a Dio – percepito
naturalmente come superiore – non è così marcato il dovere dell’Uomo di
restare altro rispetto al divino: è anzi valorizzata, nella Tradizione
Rabbinica, l’iniziativa conoscitiva per colmare una distanza fra l’umano
e il divino, per sublimare il dualismo nell’Unità.
Non a caso, l’influenza dell’Ebraismo è stata determinante per
l’evoluzione, nei secoli successivi, delle scuole iniziatiche europee:
dalla Rosacroce alla Massoneria; dalla Golden Dawn agli Illuminati e a
tutte le successive evoluzioni e ramificazioni. Ipazia di Alessandria,
per ragioni biografiche, non conobbe mai, ad esempio, quella
straordinaria elaborazione di tradizione ebraico-spagnola che è l’Albero
della Vita o Albero dei Viventi e che poi, nella sua versione ermetica,
tanta importanza ebbe nella costituzione dell’ontologia e della
metafisica delle scuole iniziatiche di tutta la cultura europea e
mediterranea. Ma, certamente, ne avrebbe apprezzato l’evidente
riemergere di una serie di elementi chiaramente provenienti dalle
dinamiche del suo tempo, e che conferivano alla dimensione umana, al
processo della Gnosi, alla donna stessa, una dignità elevata e lontana
da molte speculazioni fideistico religiose di una società rigidamente
teocentrica, quale quella che si costituirà dopo la sua morte.
Vale perciò la pena, in un contesto di commemorazione dell’opera di
Ipazia, tornare a riflettere con consapevolezza filosofica ben fondata
sulla mirabile struttura dell’Albero dei Viventi; una struttura che
rivela l’essenza di tutte le Tradizioni Iniziatiche dell’Occidente, a
partire dalla leggendaria scuola Pitagorea e transitando da quella
sorretta, seppur brevemente, dalla nostra Venerabile Filosofa. Se
infatti la complessiva costituzione del Glifo dell’Albero può essere
certamente riferita, nel suo complesso, ad un periodo tardo (XIII
secolo) e ad uno spazio geografico ben preciso (Spagna-Francia) – si
pensi, per inciso, alla produzione del
Sefer ha-Zohar – le
origini di questa complessa codificazione emergono tuttavia da un
contesto geografico orientale e da un contesto temporale che risale
almeno dall’Era del Secondo Tempio (ci avviciniamo perciò notevolmente
alla dimensione spazio-temporale di Ipazia di Alessandria).

Per
altro, per quanto concerne la citata eredità delle Scuole Iniziatiche
Europee, è più corretto riferirsi alla tradizione ebraico-
ermetica, che molto trae dalle speculazioni neo-platonica. Osserviamo così il dispiegarsi delle
Sfere
dell’Albero, ovvero di questi macro-contenitori concettuali che, per
partenogenesi da un “traboccamento di perfezione”, dal più alto al più
basso, vanno a costituire la
mappa concettuale dell’esistenza, riferita sia alla strutturazione essenziale dell’Universo che alla struttura dell’Uomo in quanto
Pontifex
fra il piano del definito ed il piano dell’indefinito e dell’infinito.
L’Albero, come noto, viene tradizionalmente diviso in tre parti: la
parte centrale è costituita dalle Sfere dell’Equilibrio perfetto –
ovvero
da quegli elementi propri della Vita che sono determinati dalla
sublimazione degli opposti complementari propri del mondo fenomenico.

La parte destra è detta “maschile” e si riferisce a quegli elementi
propri della Vita che sono determinati dalla prevalenza di una delle
polarità opposte e complementari che permettono la definizione
dell’esistenza; la parte di sinistra, parimenti e per le medesime
motivazioni, è detta invece “femminile”. Questa divisione, maschile e
femminile nella loro sacralizzazione, è forse più correttamente
definibile attraverso i termini “Yin e Yang”, ovvero attraverso il
ricorso alla più precisa filosofia cinese che si riferisce alla
evoluzione del primigenio
Wu Chi – il “potenziale nulla” verso il
Tai-Chi – quel primo moto di Coscienza nell’Universo che consente l’Esistenza in qualità di
prima forza indifferenziata – del tutto paragonabile alla Sfera
Kheter (la Corona) –
e che va poi dividendosi nei principi della definizione per coppie di
opposti che consente il realizzarsi progressivo del mondo fenomenico.
Yin e Yang sono così sovrapponibili alle Sfere di
Binah e
Hockmah che,
egualmente, nella mistica semitica esoterica, rappresentano la prima
forma di differenziazione dell’Ideale Unità assoluta e Indefinita
(Kheter appunto).

Binah, ovvero lo Yin, è una Sfera riferita alle caratteristiche astratte e ideali dell’
Atto in contrapposizione complementare alla
Potenza; dell’
Intelligenza Attiva in contrapposizione complementare alla
Comprensione; della forza dinamica del
Divenire in contrapposizione complementare alla forza statica dell’
Essere; della
tensione infinita in contrapposizione complementare alla
volontà pura della “tensione” ancora non esprimibile; della
Creazione contrapposizione complementare all’
Essere dal Nulla.
Procedendo verso un piano ontologico più concreto del fenomenico, ci riferiamo alle caratteristiche delle Sfere di
Geburah e di
Chesed. Come simbolo di Geburah, la Donna Filosofa – quale fu Ipazia di Alessandria – rappresenta il
Potere in contrapposizione complementare all’
Amore;
la Forza di Volontà in contrapposizione complementare alla
Misericordia; la
determinazione.
Anche per questa ragione, le due parti estreme dell’Albero assumono i
nomi di Severità e Misericordia rispettivamente per lo “Yin” e o “Yang”.
Com’è possibile notare, alcune caratteristiche che su di un piano più
astratto erano maschili qui divengono femminili o, meglio, attribuibili –
per definizione – al
femminino sacro, portando così avanti un continuo gioco di intrecci e di specchi che riflettono i due opposti complementari l’uno nell’altro.
Ed è certamente da un bacino culturale così vivo e da una filosofia
così elevata che nacque, in Alessandria d’Egitto, la possibilità di
proseguire l’opera neopatonica, e che si creò – a dispetto di quanto si
stava costruendo nel parallelo panorama politico, sociale e culturale –
un clima così libero all’interno della Scuola alessandrina, e così
centrato sulla virtù della scienza e della ricerca, da permettere
un’azione modernissima e al limite dell’incredibile: l’elezione di una
donna alla Guida della Scuola.

Proseguendo
nell’analisi dell’Albero, sviluppando le nostre osservazioni dal Mondo
Atzilutico delle Idee in Sé fino al mondo fenomenico, troviamo ancora la
Sfera di
Hod – femminile – e la Sfera di
Netzach – maschile . Come simbolo di Hod, il femminino sacro rappresenta nuovamente l’
Intelligenza, la
Scienza e la
Razionalità in contrapposizione a ciò che rappresenta il maschile sacro esaltatato in Netzach: l’
Amore, la
Comprensione, l’
Emozione. L’aspetto animico e intellettivo del femminile in Hod è la
Cultura, la
Gnosi, il
Governo, la
Società
in contrapposizione complementare all’aspetto animico ed intellettivo
del Maschile esaltato in Netzach, che è la tendenza alla “
inclusività” delle relazioni umane.
Sia ben chiaro che utilizzare i termini “maschile” e “femminile”
intende riferirsi al femminile ed al maschile insito in ciascuno di noi.
Secondo questa mirabile strutturazione dell’Universo, e dell’Uomo in
relazione all’Universo, il nostro aspetto
femminile sacralizzato è, quindi:
- L’Intelligenza Attiva
- l’Essenza della Coscienza,
- la Mistica e la tensione del Finito verso l’Infinito.
- ma anche l’essenza del Mondo Fenomenico
- l’Energia Vitale
- l’Atto della Creazione
- la Vita e la Morte nel loro incessante alternarsi
- il Dinamismo intrinseco nel Reale
- la Giustizia intesa come Dharma, come Necessità Universale

Viceversa, il nostro aspetto maschile sacralizzato è:
- l’esplosione della Volontà
- L’idea dietro le cose
- La sintesi dei processi universali
- L’inclusività dell’amore che tutto trascende
- La norma dei fenomeni
Da quanto si apprende anche solo da una rapida osservazione (che tale
dev’essere per non cadere, come si usa dire, fuori tema) circa, si
diceva, alcune semplici attribuzioni delle Sfere, immediatamente ci è
possibile realizzare quanto il percorso di Gnostica Ascesa dell’Albero
dal piano fenomenico a quello unitario e trascendente, sia monco se
percorso in modo squilibrato: ogni Sfera, nella sua perfezione, è
infatti dotata di un aspetto maschile e femminile, di un aspetto
concreto e di un aspetto trascendente, di un piano qlifotico e di un
piano sefirotico, di una serie di attribuzioni elementali, astrologiche e
persino afferenti all’angiologia. Il valore allegorico di queste
immagini continua a perpetrare l’idea, tanto importante anche nel
processo filosofico neoplatonico, che l’Uomo si presenti come creatura
estremamente complessa, come lo specchio ermetico di un universo che si
riflette nella sua stessa essenza che contiene tutto in potenziale
equilibrio e perfezione.
Si noti infatti ciò a cui si riferiscono le Sfere poste nel Pilastro dell’Equilibrio, nel Pilastro generato, cioè, dal
confluire armonico degli Opposti Complementari. Anche
Malkuth, l’ultima sfera, speculare a Kheter, che sorregge l’intera struttura universale e Umana è generata dal
confluire armonico degli Opposti Complementari,
e Malkuth rappresenta il mondo; Malkhut siamo noi, è la necessità
universale, le leggi della fisica, il senso della vita stessa. Anche
Yesod
è nel pilastro dell’Equilibrio: rappresenta l’apertura, nell’Uomo, del
mondo onirico e del senso dell’indefinito; rappresenta la sfuggevolezza
delle Intuizioni e l’insinuarsi nella percezione razionale della
quotidianità del senso della mistica e del mistero; è la Curiosità
motore della Gnosi, la ricerca infinita propria dell’Uomo che non si
accontenta mai della Conoscenza.
Sono proprio questi concetti, così straordinariamente potenti
nell’innescare la “bomba” dell’aspirazione alla Libertà individuale, che
risultarono da un lato i più affascinanti ma, dall’altro, i più
pericolosi all’instaurarsi di una forma mentis fideistica e
aprioristica, che al di là del complesso rapporto con la Ragione (come
abbiamo precedentemente visto) dovesse poggiare tuttavia in primis sulla
Fede e non sul Dubbio; sul concetto di ruoli e definizioni in vece di
una apertura dinamica del sapere; sul necessario acuirsi della
segregazione dei generi che, sempre di più, si rivestirà di valore
morale; sulla definizione insomma di una società piramidale, statica, a
struttura collettiva e geocentrica. Una società che, dopo il IV – V
secolo, verrà recuperata solo al verificarsi di quella che
Jacob Burckhardt vedeva – a torto o a ragione – come una grande frattura: l’instaurarsi del periodo umanistico-rinascimentale.
Torniamo perciò, ancora un attimo, all’Albero dei Viventi, ed
esploriamo – seppur brevemente – il senso di quella che abbiamo lasciato
in sospeso, come ultima sfera, proprio per la sua particolare
importanza: si tratta della Sfera che domina l’asse centrale
dell’Albero. Il suo nome è
Tipheret – che significa Bellezza – e nel suo essere posta “
al centro del pilastro che sta al centro” rappresenta
l’armonia allo stato puro, la quintessenza
dell’Estetica come fondamento dell’Etica.

Vi è associata, per convenzione, fra gli Arcani Maggiori della Ruota
dei Tarocchi, la Carta del Sole e vi è associato il simbolo della
Galassia, della Spirale e della Stella fra le Stelle. Tipheret, in cui
Maschile e Femminile si mescolano nello stadio più perfetto per quanto
concerne le aspirazioni concrete dell’Essere Umano, rappresenta il Cuore
dell’Albero della Vita, che pompa linfa vitale in tutte le Sfere
attraverso le “vene” dell’Albero, che sono i Sentieri, corrispondenti
agli Arcani Minori dei Tarocchi – il grande libro muto dell’Iniziazione.
Corrispondente, nel corpo umano, al
Plesso Solare, Tipheret
rappresenta infatti l’Androgino perfetto, l’Uomo indifferenziato,
l’Essere Umano puro al di là di ogni sua appartenenza di genere, di
ideale, di religione, di personalità: è l’Uomo inscritto nella Stella
Pitagorea; l’Uomo nella sua pura Bellezza dell’Essere un Essere Umano.
A tal proposito, mi torna alla mente un passo, davvero commuovente, di
una delle opere nelle quali lo scrittore peruviano Carlo Castaneda
illustra la saggezza del cammino iniziatico della tradizione
mesoamericana; egli fa dire al suo maestro, l’anziano sciamano yaqui Don
Juan: “
Il compito di un Guerriero (ovvero sia – diremmo noi – di un
Filosofo, di un Iniziato) consiste nel conciliare il terrore di essere
un Essere Umano con la Meraviglia di essere un Essere Umano”.
Questa conciliazione è Tipheret, la
Bellezza che ha valore e
senso solamente in se stessa. E’ quel traguardo di saggezza di chi va
davvero – concretamente – oltre le definizioni per incontrare la Gnosi,
ovvero la
conoscenza che genera consapevolezza. E forse non a caso, molti grandi Iniziati sono stati anche grandi scienziati, filosofi e artisti.
Nella scuola di Ipazia di Alessandria, si respirava perciò e
inevitabilmente l’aria di quella assoluta libertà che è l’unica a
consentire il vero progresso umano; una libertà tanto rara da
consentire, come abbiamo visto, a una donna di divenire erede e Maestro,
per nessun altro motivo se non il migliore, e cioè che se lo meritava
molto più di altri “colleghi” maschi. Così, infatti, la reputava nel
IV-V secolo, il teologo e filosofo Socrate detto Scolastico, che
valutava Ipazia non solo la più saggia fra i Filosofi ma la giusta
continuatrice della lignaggio. In un clima tanto libero quanto
irripetuto, fiorirono dibattiti e scoperte che anticiparono – in fisica e
matematica – più tarde riscoperte che l’Europa riconquisterà solo dopo
il periodo umanistico-rinascimentale. Non esisteva il macigno
inamovibile di riferimento proprio dell’
IPSE DIXIT,
il celebre principio che, dalla morte di Ipazia in poi, si andrà
lentamente sviluppando in tutta l’Europa medievale. E così si
mettevano in discussione Tolomeo ed Aristotele, poiché non si temeva il
Dubbio, che è nemico della Fede – come ci ricorda Umberto Eco ne “Il
Nome della Rosa” – ma non del Filosofo e dello Scienziato.
A che vale, allora, discutere oggi di Ipazia? Una grande
Filosofa, una grande Scienziata, un grande Maestro ed un grande Iniziato
ai Misteri della Gnosi? A mio personalissimo parere, parlare
di Ipazia, oggi – inquadrandone correttamente la morte nel clima
politico, socio-economico del tempo, come abbiamo fatto, nonché
culturale – serve poiché, come detto in apertura, il suo martirio, cioè
la sua testimonianza, viva come testimonianza di quanto facile sia non
riconoscere la vera genialità, laddove sussista il pregiudizio; la vera
Libertà, laddove sussista la paura; il vero dubbio, la dove ci si voglia
accontentare della fede aprioristica – ma sia chiaro che ciò non è
rivolto solo a quegli atti di sterile sentire religioso:
l’atto
di fede senza dubbio possiamo farlo ogni giorno della nostra vita in
tante piccole, rassicuranti bugie o semi-bugie che ci raccontiamo.
In ultimo, ricordarci di Ipazia, ci serve – a mio avviso – per
ricordarci cosa sia il vero Illuminismo Scientifico e per quanto tempo e
quanto facilmente, anche le più grandi menti e le più grandi civiltà
possono cadere in un sonno profondo della ragione e dell’emozione.